È difficile trovare una data d’inizio perché ce ne sarebbero troppe. Facciamo un esercizio di stile e poniamo gli Europei di Roma del 1991 come architrave della nostra costruzione. La Yugoslavia si chiama ancora Yugoslavia e la sua squadra di basket è un concentrato purissimo di talento: Perasovic (sì, l’allenatore del Kazan), Djordievic (si, Sasha), Kukoc (sì, quello di The Last Dance), Paspalj (sì, quello che fumava 130 sigarette al giorno), Danilovic (sì, quello del tiro da quattro contro la Fortitudo), Divac (sì, quello che ha insegnato basket in California), Komazec (sì, quello che ha insegnato basket a Varese), Radja (sì, quello che ha esaltato Roma e non solo) e Savic (sì, quello che ha reso la Virtus leggenda…insieme a Danilovic e altri bravini). E, poi, c’era Zoran Sretenovic. Chi? Beh, non che fosse proprio uno sconosciuto visto che aveva vinto tre Coppe dei Campioni con Spalato. Giusto, ma vicino al playmaker di Belgrado ci doveva essere un suo connazionale che, per inciso, era anche il capitano di quella parata di stelle: Zeljko Obradovic. Stiamo parlando di un trentunenne ancora nel pieno delle sue forze reduce dal campionato del mondo vinto nel 1990.
Bene, in quell’estate del 1991 la nazionale slava finisce il proprio camp di preparazione agli Europei nella cittadina di Porec e lascia liberi i propri giocatori per una notte prima di partire alla volta dell’Italia. E proprio in quella notte, Obradovic viene chiamato dal board del Partizan Belgrado che gli propone di lasciare il basket giocato e di diventare l’allenatore della squadra. Quando? Subito. Il Nostro chiama l’allenatore della Nazionale Ivcovic e gli comunica che non sarà del torneo e che da quel momento i due saranno colleghi. Obradovic è innamorato del Partizan, dei suoi colori, della sua gente. Lui che è nato e cresciuto cestisticamente a Cacak, 150 chilometri a Sud di Belgrado, ma che nel 1984 vestirà una maglia per sempre sua. Per lui è una chiamata del cuore, non può rifiutare. Certo, Zeljko è giovane. Dovrà allenare giocatori che, fino a un minuto prima, erano suoi compagni di squadra. Difficile capire come andrà, i dubbi ci sono.
(foto Dragana Stjepanovic)
Istanbul, 14 aprile 1992: Sasha Djordievic infila sulla sirena il più iconico dei canestri e il Partizan diventa campione d’Europa battendo in finale la Joventut Badalona. Ok, dubbi non ce ne sono più. Una squadra formata da soli slavi, una squadra con i leader formati nel proprio settore giovanile, una squadra allenata da un ragazzo che ha il sangue bianco e nero. Il Partizan Belgrado è pura leggenda. A cominciare dagli anni ’70 quando la generazione dei Dalipagic (visto in tarda età anche a Venezia e Verona) e dei Kikanovic (due stagione a Pesaro) riuscì a mettere il nome del club sulla cartina geografica del basket europeo vincendo due coppe Korac (la vecchia Eurocup, tanto per intenderci), la prima nel 1978 contro il Bosna Sarajevo e la seconda nel 1979 contro gli italiani della Sebastiani Rieti. È l’inizio di una mistica che fa di questa squadra un modello di riferimento per tutta la pallacanestro europea. Un modello fatto di talento ma, soprattutto, di sacrificio e maniacale cura dei fondamentali. Un modello in cui gli allenatori non sono solo maestri in palestra ma assurgono al ruolo di veri e propri santoni. Un nome su tutti: Dule Vujosevic.
C’è lui dietro la seconda ondata di “mostri” che troverà piena maturazione nella straordinaria vittoria in coppa Korac nel 1989, avversaria di turno è la Vismara Cantù (lo avete capito, anche gli italiani dettavano legge…ma stavano cominciando a perdere terreno). Quella è la squadra di Sasha Djordievic e Vlade Divac ma è, soprattutto, la squadra di Predrag Sasha Danilvoc, il figlioccio prediletto di Dule. Fast forward. 1994, palazzetto San Filippo: il Basket Brescia gioca un anonimo campionato di serie B d’eccellenza ma in panchina c’è Vujosevic, durante una altrettanto anonima partita di campionato si verifica l’incredibile quando fa la sua apparizione sua maestà Danilovic tra lo sconcerto dei pochi presenti. Il campione affermato rende onore al suo mentore. Perché essere del Partizan non significa solo indossare una maglia ma è, soprattutto, rimanere attaccati a un cordone ombelicale che ti nutre quotidianamente e ti definisce come giocatore e come uomo. E in un infinito meccanismo di riconoscimento dei ruoli, Danilovic diventa presidente del club nel 2001 e chi chiama come allenatore? Facile, Vujosevic.
È l’inizio di una nuova Golden Age con la Final Four di Eurolega conquistata nel 2009 facendo leva su risorse economiche limitate che, però, ben si sposavano con l’ennesima infornata di giovani virgulti dalla faccia tosta e dalla mano caldissima unita a un paio di americani (Lawrence e McCalebb) fortissimi. Il Partizan viene eliminato ai supplementari dall’Olympiacos del serbo Teodosic e perde, sempre ai supplementari, la finalina col CSKA. È l’ultimo, grande, squillo di un club che sta vivendo, manco a dirlo, un nuovo cambio di pelle in campo ma che può contare sempre su quella che è, a buon diritto, la caratteristica che lo definisce come uno dei più affascinanti del mondo: il suo pubblico. Stipati nella vecchia (1973) Pionir Arena (vero, dal 2016 si chiama Nikolic...), trovano ottomila anime torride che vengono guidate dal tifo organizzato dai Grobari, i becchini. Un nome che spiega molto bene il carattere intimidatorio della curva bianco-nera. Un valore aggiunto che rende ogni trasferta in terra serba una vera e propria via crucis per le squadre avversarie. Non bastasse la forza attuale di una squadra guidata da un allenatore il cui nome mette i brividi (di ammirazione) al solo nominarlo. Questo è il Partizan Belgrado, signori. L’ultimo avversario di Trento in Eurocup.